Di seguito il testo completo del Manifesto.
I parchi: dalla crisi al rilancio
1. La crisi, il rilancio, la missione
La situazione delle aree protette del nostro Paese non è mai stata così critica e allarmante come in questo momento.
Dai parchi nazionali a quelli regionali a tutti gli altri tipi di aree protette, che in questi anni hanno accresciuto, consolidato, diffuso una presenza importante in un ambito che aveva visto l’Italia per tanti anni in posizioni di coda, tutti i comparti rischiano ormai una crisi pesantissima e potenzialmente irreversibile.
Se questo è il contesto istituzionale, quello culturale e del dibattito pubblico non è migliore. Infatti, mentre le grandi questioni ambientali (conservazione della biodiversità, adattamento al cambiamento climatico, affermazione delle energie rinnovabili) hanno continuato a trovare spazio e hanno attirato anzi un’attenzione crescente, le problematiche dell’amministrazione, della gestione politico-istituzionale dell’ambiente e del territorio sono progressivamente scomparse dall’orizzonte, impoverendo la stessa capacità di progetto e di governo. Una delle cause di questo generale appannamento è stata, tra l’altro, il persistere di una sempre più artificiosa contrapposizione tra politiche di tutela ambientale e processi economico-sociali, proprio nel momento in cui tra le due istanze si instaura un legame imprescindibile, tanto più alla luce della crisi economica ed ecologica globale. La funzione generale dei parchi, che trova proprio nella sperimentazione di nuove sintesi una delle sue ragioni di essere, viene necessariamente mortificata se non si colgono i nessi tra ecologia ed economia e se anzi si insiste artificialmente e strumentalmentea contrapporle. La proposta di convocare la terza conferenza nazionale dei parchi, avanzata a più riprese, scaturiva appunto dall’esigenza di arrestare questa allarmante caduta e di ridelineare collettivamente una chiara prospettiva nazionale per il futuro delle aree protette. Il più totale disinteresse da parte del ministero dell’Ambiente e della maggioranza delle regioni possono essere interpretati come un ulteriore sintomo di crisi, anche dal punto di vista della sensibilità istituzionale e della cultura della tutela.
Questo drammatico avvitamento verso il basso del sistema italiano delle aree protette si verifica, giova ricordare anche questo, in coincidenza con importanti appuntamenti internazionali che ovunque stanno stimolando e arricchendo l’azione dei governi nazionali e locali e degli enti di gestione. L’Anno della Biodiversità è uno di questi, ma si può ricordare anche l’importante passaggio costituito dall’entrata in vigore della Convenzione Europea del Paesaggio, e suona perciò tanto più come una beffa tutta italiana il fatto che di recente al Piano dei parchi sia stata sottratta la competenza proprio sul paesaggio senza che nessuna voce si sia alzata per stigmatizzare il fatto.
Più in generale si può osservare che le leggi italiane più importanti per un più efficace e incisivo governo del territorio e dell’ambiente – la legge 183 del 1989 sulla protezione del suolo e la legge 394 del 1991 sui parchi sono sottoposte a successive e spesso silenti lesioni che ne hanno pregiudicano progressivamente il funzionamento e l’efficacia. Nel caso della legge 394 siamo oramai di fronte al rischio di uno smantellamento dei parchi realizzato, più di recente, anche in nome della riduzione dei costi della politica e della gestione istituzionale. Una giustificazione, questa, che assolutamente non sta in piedi se si considera che le aree protette italiane sono storicamente e cronicamente sottofinanziate rispetto a quasi tutti gli altri paesi europei.
La missione che in Italia come in tutto il mondo le aree protette e in particolare i parchi svolgono è una missione storica, perché è quella di contribuire a salvare la Terra dal rischio della catastrofe ambientale, e nello stesso tempo strategica, perché i parchi rappresentano dei veri e propri laboratori in grado di dimostrare concretamente che è possibile un altro modo di gestire il territorio e che perciò il degrado qualitativo e quantitativo delle componenti naturali può ancora essere frenato.
In questa ottica, peraltro, il rilancio dei parchi e delle aree protette viene necessariamente collocato in una prospettiva internazionale, non solo perché a quel livello si ribadisce la loro missione storica e il loro contributo insostituibile alle politiche di conservazione della natura e del paesaggio, ma anche perché l’Italia non può sfuggire alle sue responsabilità nei confronti di un patrimonio naturale e culturale che appartiene all’intera umanità. È a quel livello che si profilano le nuove frontiere della conservazione della natura, ben al di là delle battaglie di retroguardia in cui si è immiserito il dibattito nel nostro Paese.
2. Una gestione “nazionale”: la pianificazione e la “leale collaborazione” Occorre prendere coscienza di questa funzione generale che sempre di più hanno le aree protette partendo anche dalla constatazione del vuoto che si è creato nella gestione ministeriale dopo l’abrogazione o l’accantonamento delle sedi e degli strumenti previsti dalla legge quadro e mai ricostituiti su nuove basi. Un decisione importante come quella recentemente presa dal Consiglio dei ministri sullo Stelvio avrebbe dovuto per esempio passare – in base alla legge quadro – attraverso il vaglio di un organo Stato-Regioni come il Comitato per le aree naturali protette e della Consulta tecnica, tutti organi spariti di scena ormai da tempo. Ecco perché urge ripristinare criteri, sedi, procedure e strumenti in grado di garantire una gestione del sistema dei parchi e delle aree protette che sia effettivamente “nazionale”, cioè fondata sulla “leale collaborazione” tra Stato, regioni ed enti locali, soprattutto in un contesto come quello attuale in cui il ruolo comunitario si è fatto più incisivo e determinante.
Il ruolo di pianificazione territoriale dei parchi. luci e ombre dei piani. Come si fa a non ricordare, per esempio, che l’ampliamento delle superfici protette terrestri (assai meno quelle marino-costiere), grazie anche a Rete Natura 2000, ha contribuito a estendere efficacemente le politiche di tutela della biodiversità e dell’ambiente anche nei territori esterni ai parchi? Queste politiche richiedono oltretutto una gestione del territorio, interno ed esterno alle aree protette, più integrata, e attentamente pianificata. I casi in cui tutto ciò è già avvenuto hanno mostrato che è possibile fare dei parchi quel laboratorio di sperimentazione di attività ecosostenibili di cui si era iniziato a parlare in Italia, in largo anticipo sui tempi rispetto ad altri paesi europei, già negli anni ‘70. Proprio grazie a tali laboratori il nostro Paese può contribuire ad affrontare le nuove, incalzanti esigenze imposte dalla crisi ambientale, avvalendosi di elaborazioni e progettazioni che hanno saputo coinvolgere anche il mondo della ricerca, sia nel settore delle conoscenze ecobiologiche, sia in quello delle tecniche innovative di controllo delle trasformazioni.
A fronte di queste accresciute responsabilità e alla maturazione di un notevole bagaglio di esperienze e di competenze, il mondo dei parchi deve saper guardare anche ai suoi insuccessi e ritardi. E tra ciò che non ha funzionato o ha funzionato meno dobbiamo riconoscere che proprio la pianificazione è stato uno dei settori più gravati da ritardi e insuccessi. I piani dei parchi hanno infatti conosciuto impedimenti, manchevolezze e burocratizzazioni che ne hanno tarpato le potenzialità di proiezione culturale e amministrativa fuori dei confini delle stesse aree protette. Si è riusciti meno, insomma, proprio là dove i parchi dovevano svolgere compiti importanti di sperimentazione, di partecipazione democratica, di educazione, di progettazione. E su questi limiti bisogna riflettere, senza nasconderseli.
Per dare piena attuazione all’art. 9 della Costituzione – tanto per dare un’idea della complessità della sfida – è necessario riuscire a disegnare delle politiche nazionali che considerino congiuntamente i sistemi di valori da difendere, gli interessi economici, sociali e culturali da comporre e gli apparati istituzionali su cui far leva. Il coordinamento delle politiche della natura e del paesaggio e la loro integrazione nelle politiche complessive del territorio, per essere efficaci devono muoversi alla scala appropriata e avere carattere sistemico: ciò vale ancor più nei confronti di alcune realtà sovra-regionali come il sistema alpino, il sistema appenninico, o il bacino padano.
L’esigenza di politiche nazionali non deve infine indurre a sottovalutare il ruolo imprescindibile dei sistemi locali (istituzioni, comunità, operatori economici e sociali, culture locali) nelle politiche della natura, del paesaggio e del patrimonio culturale e nel loro raccordo con la governance e la pianificazione urbanistica e territoriale, al fine di diffondere sull’intero territorio i benefici della conservazione e della valorizzazione, come peraltro auspicato anche dall’UICN. Tale ruolo, che emerge con tutta evidenza nell’esperienza internazionale e che trova riscontro nella Convenzione Europea del Paesaggio, non può che fondarsi – oltre che su un sintetico e indispensabile quadro di norme nazionali chiare e cogenti – su forme e strumenti appropriati di cooperazione e di collaborazione interistituzionale, che consentano alle azioni e alle iniziative locali di trovare adeguato riscontro nelle strategie sovra-locali, in primo luogo in quelle promosse o governate dalle autorità di gestione dei parchi e delle aree protette.
3. Una vera riforma dei parchi, che li potenzi e che aumenti la loro efficienza e il loro impatto positivo Il punto di partenza da ribadire con forza e senza incertezze è che la gestione dei parchi deve restare fermamente ancorata al sistema istituzionale ossia alla responsabilità e titolarità pubblica come lo sono il paesaggio e il suolo. Titolarità che non esclude assolutamente – anzi richiede – il coinvolgimento di attività e interessi privati come d’altronde avviene già nei settori del turismo, dell’agricoltura, della valorizzazione dei prodotti di qualità della pesca e in altro ancora. Tale necessario coinvolgimento non deve tuttavia diventare in alcun modo pretesto per politiche di abdicazione del ruolo che compete alla responsabilità pubblica.
In secondo luogo, si può iniziare a riflettere in ordine alla possibilità di modificare la composizione, le competenze specifiche e la dimensione operativa degli enti di gestione delle aree protette – sia quelli previsti dalla legge quadro, sia quelli previsti dalle leggi regionali – modulandoli sulle specificità delle singole aree e sul ruolo delle comunità del parco.
In tale ambito vanno sicuramente riviste – anche alla luce delle esperienze generalmente poco positive di questi ultimi vent’anni – le competenze degli enti dei parchi nazionali che non hanno attualmente la responsabilità piena del personale, del direttore (scelto e dipendente dal ministero) e della vigilanza (dipendente dal ministero dell’Agricoltura); il tutto senza considerare che sopravvive anche la Commissione di riserva per le aree protette marine che rispetto al tempo in cui fu approvata la legge sul mare non ha più alcun senso e giustificazione.
In terzo luogo per i parchi nazionali, ma non solo per essi, andrebbero anche definite, in forma concertativa tra il ministero e le Regioni territorialmente interessate, le specifiche missioni di scopo per ognuno di loro e su questa base dovrebbero essere fissate meglio le competenze che possono e debbono essere poste in capo al parco connotandone così, meglio di quanto avvenga ora, la loro funzione nel quadro del sistema nazionale delle aree protette.
È necessario, insomma, disegnare un ente che per composizione corrisponda chiaramente ai compiti che gli sono affidati i quali devono a loro volta essere assolutamente chiari, soprattutto nel senso di non confondersi con quelli degli altri soggetti comunque chiamati a occuparsi anche di ambiente: un parco non deve e non può fare di tutto perché non su tutte le questioni esso può e deve intervenire, magari solo per l’ansia di essere estromesso.
In generale, sarebbe anzi opportuno individuare forme innovative di gestione dei parchi, più corrispondenti alla missione loro assegnata o ai contesti territoriali dei quali essi fanno parte.
Nelle aree protette appenniniche, siano esse parchi nazionali o regionali, sarebbe per esempio molto utile sperimentare forme gestionali in grado di garantire un costante coordinamento sovraregionale a partire da uno snellimento o unificazione delle strutture esistenti per ambiti territoriali tra di loro contermini.
Non diversa è la situazione di altre importanti realtà come quella alpina che specialmente dopo il riconoscimento delle Dolomiti come patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco deve saper svolgere sempre più un ruolo internazionale come d’altro lato deve avvenire per il Mediterraneo e le coste a partire dal Santuario dei cetacei da troppo tempo in crisi che si aggiunge a quella delle aree protette marino-costiere finora tagliate fuori di fatto da quelle politiche di integrazione previste e volute dall’Unione Europea.
Si dovrà in sostanza riuscire a individuare nel contesto nazionale le giuste scale di politiche di sistema non ignorando, per esempio, le specificità del sud, dove a differenza del centro-nord operano grandi parchi nazionali le cui iniziative di raccordo tra dimensione locale e aree vaste presentano notevoli difficoltà e al contempo problematiche cruciali per la costruzione di un sistema nazionale di parchi e aree protette.
Tutte queste complesse questioni ripropongono in un contesto nuovo il tradizionale dibattito sulla classificazione dei parchi, in un panorama tipologico arricchito oltretutto da nuove categorie come i parchi metropolitani e agricoli, realtà non più ignorabili.
Una politica italiana delle aree protette adeguatamente rilanciata deve infine proporsi come obiettivi strategici l’avvio dei progetti di sistema previsti dalla legge n. 426, la realizzazione della Carta della Natura, un piano nazionale della biodiversità, la progettazione e la gestione di politiche della ruralità e della tutela del paesaggio, degli ecosistemi e del suolo, che rientrano pienamente nell’ambito della missione delle aree protette stesse. Queste ultime sono per eccellenza, infatti, i contesti in cui la pianificazione deve assumere caratteri di unitarietà e in cui l’intero territorio deve essere riordinato senza soluzione di continuità fra spazi densamente urbanizzati e spazi aperti, ridefinendo peraltro i margini di riferimento geografico.
Solo a queste condizioni i parchi – tutti i parchi e le aree protette – possono ritrovare il ruolo specifico che loro compete.