Sentiamo chi li studia (estratto da “Natura Protetta” n. 10 – Primavera 2011)
L’orso marsicano è una specie carismatica come poche altre in Italia, è quindi naturale che la vicenda della sua conservazione susciti passione e partecipazione nel pubblico e in tutti coloro che hanno a cuore le sorti delle specie minacciate. La piccola popolazione è ristretta in gran parte nei confini del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e solo saltuariamente qualche animale (per lo più maschi in dispersione) viene osservato per periodi più o meno brevi anche in aree esterne al Parco come le aree protette abruzzesi e fino alle Marche nel Parco Nazionale dei Sibillini. Discutere su tutte e sempre, anche se si è incompetenti della materia, è uno sport in cui l’Italia compete con successo per i primi posti in classifica (per continuare la lettura clicca su Read More qui accanto).
Per decenni, l’amministrazione passata del Parco ha sostenuto la presenza di un numero di orsi talmente elevato che, se fosse stata vera, sarebbe stato un primato mondiale di densità. Ma erano numeri inventati nei sogni di qualche amministratore.
Per anni, si sono spesi denari pubblici e privati per dare da mangiare agli orsi mele e altre colture a perdere, senza una minima traccia scientifica che dimostrasse la necessità (e poi la utilità) di quegli interventi. Per anni, autonominati esperti hanno pontificato sulle azioni da prendere, accusato di inadempienza quasi tutti e hanno raccolto consensi da parte di altrettanti sprovveduti. Le informazioni scientifiche, le uniche utili per costruire effettive azioni di gestione, non sono mai state prodotte, basta controllare la letteratura.
Ma da 6-7 anni la situazione è cambiata: la nuova amministrazione ha deciso di affrontare, a costo di risultati deprimenti e deludenti, la via della trasparenza e del dato oggettivo, in poche parole un approccio scientifico. La ricerca è così potuta partire; non ri-partire, ma proprio partire da zero perché prima non era disponibile alcuna informazione scientifica degna di questo nome.
Naturalmente l’operazione è stata osteggiata e dileggiata dai molti che preferiscono navigare la nebbia e sguazzare nelle opinioni personali. E i primi risultati del lavoro di indagine sono chiari. Gli orsi rimasti sono una quarantina; sono certo molto pochi ma, fatto interessante per la conservazione, sono ad una densità alta per la specie. Non si conoscono densità molto più alte per la specie in nessuna altra parte del mondo. Altro risultato importante è che gli orsi sembrano tutti in ottime condizioni fisiche, nessun deperimento per scarsità di risorse alimentari, e i tassi di riproduzione sembrano in linea con quelli naturali per la specie.
Allora, tutto bene? certamente no.
La specie subisce una mortalità per cause antropiche troppo elevata per permettere un aumento della popolazione nel Parco e, soprattutto, la sua espansione in aree diverse dell’Appennino. Tutto l’Appennino centrale, soprattutto nei suoi parchi nazionali (Majella e Gran Sasso, ma anche Sibillini) e regionali (Sirente-Velino, Simbruini) e riserve regionali, è una grande area che offrirebbe habitat idonei all’orso, ma non offre sufficiente protezione all’uso indiscriminato di veleni che oggi, forse più che in passato, si usano contro cani randagi, lupi e volpi.
La mortalità degli orsi è troppo alta per assicurare la conservazione della specie in tempi lunghi e sembra soprattutto legata, non ai cinghiali né ai turisti (non vi è la minima prova scientifica di tutto ciò) ma alla nuova zootecnia basata su vacche e cavalli bradi che si difende con veleni e fucilate da tutti i potenziali predatori.
Il Ministero, le Regioni, i Parchi, le Province, le organizzazioni di conservazione si sono riunite finalmente intorno ad un tavolino ed hanno firmato il Piano d’Azione per la tutela dell’orso marsicano (PATOM): l’idea è ottima ed effettivamente nuova, ma manca del supporto economico e della necessaria congruenza tra il dire e il fare.
Da una parte si fanno roboanti dichiarazioni di conservazione e dall’altra si autorizzano strade e si pianificano aree sciistiche in aree esterne al Parco ma tuttavia di vitale importanza per il futuro dell’orso.
Si accusa il Parco di aver speso soldi per ricerche inutili ma si dimentica che quei soldi sono stati una donazione privata di una cittadina americana al progetto di ricerca della Università di Roma. Nemmeno una lira viene dai cittadini italiani ed abruzzesi e il Parco non avrebbe nemmeno potuto contribuire, avvilito come è dai micidiali tagli al suo bilancio.
Ma il Parco ha dato tutto il suo apporto di personale e strutture e ha abbracciato con forza la via della ricerca. Alla demagogia dei predicatori persi nei loro deliri si può opporre solo una cosa, la razionalità e la logica dei dati scientifici e oggettivi, oggi finalmente sul tavolo di ogni trattativa e pianificazione.
Il resto sono chiacchiere.
Proff. Luigi Boitani e Paolo Ciucci
Università La Sapienza
Dipartimento di Biologia e Biotecnologia
Roma