Prima che qualcuno mi scriva di mandare la foto ad un concorso, magari al WPOY, m’affretto ad aggiungere: è tutto inventato. Lo scatto viene dal recinto di Pescasseroli, parco nazionale d'Abruzzo, Lazio, Molise. E le parole, dalla tastiera di un naturalista che ahimè i lupi – almeno per ora – li ha fotografati solo agli zoo. Ma ho pensato di pubblicarlo dopo aver chiuso le pagine di un bellissimo libro, Il totem del lupo di Jjang Rong (Mondadori 2006), consigliatomi da Fulco Pratesi. E’ la storia dell’iniziazione alla dura vita dei pastori mongoli di un giovane intellettuale cinese, che grazie agli insegnamenti di un vecchio saggio presto s’appassiona alla presenza più magnetica e misteriosa dell’altopiano: quella dei lupi. Coincidenza ha voluto che divorassi quelle pagine mentre, dopo quella del “lupo che salta” (la foto vincitrice del WPOY 2009, poi squalificata: vedi post precedenti), altre foto di lupo scatenassero le polemiche tra gli addetti ai lavori. Mi riferisco al magnifico reportage di Sergey Gorshkov, prima apparso con pochi scatti sul Blog di Wild Wonder of Europe e poi pubblicato sulla prestigiosa Wildlife, numero di gennaio 2010. Proprio il commento di una lettrice del blog citato (ora rimosso per l’imbarazzo) e ripreso criticamente da Angelo Gandolfi ha infatti rivelato i retroscena del lavoro del fotografo russo, realizzato grazie ad animali in precedenza curati presso un locale centro di riabilitazione e dunque in qualche misura abituati all’uomo.
Molto più vere, allora, le emozioni che scaturiscono dalla lettura del libro di Rong. Un tuffo di seicento e passa pagine nel rapporto affascinante che ci lega alla specie forse più simile alla nostra, altri primati esclusi, tanto più avvincente per chi è abituato ad accontentarsi di impronte. Feci. Peli. Tracce di fantasmi, insomma. E niente di più.