Secondo me pochi ambienti naturali hanno il fascino della faggeta. La casa dell'orso, la fabbrica dell'ossigeno. Ieri ho passato il pomeriggio in una delle più belle che abbiamo nel Lazio, intorno ai Fondi di Jenne (sui Simbruini). Verso il tramonto si sono create situazioni di luce bellissime, con la neve che faceva da enorme pannello riflettente. La foto pubblicata è stata fatta col 500 mm, per schiacciare la prospettiva ed esaltare l'effetto dello sfocato in primo piano.
Studi dell'Università della Tuscia sugli ecosistemi forestali hanno documentato la capacità di un bosco di faggi di sottrarre all'atmosfera circa 6 tonnellate di carbonio per ettaro all'anno. Come dire, il ritratto a una boccata d'aria. Si chiamava così, qualcuno lo ricorderà, una sezione della rivista Diario diretta da Enrico Deaglio che ho sempre apprezzato molto. Gli ultimi due termini sarebbero poi pleonastici, perchè un'inchiesta è un'inchiesta, ma la nostra stampa è così poco libera che la precisazione era opportuna. Fatte le debite eccezioni, le "inchieste" pubblicate sui giornali italiani sono di una superficialità tale da avere tra i pochi effetti certi quello di allontanare i già pochi lettori. Le riviste di natura naturalmente non fanno eccezione, e riflettevo su questo l'altro giorno durante un incontro pubblico sui monti della Tolfa durante la già citata Conferenza sui parchi del Lazio svoltasi a Roma.
Dopo la presentazione di un progetto di ricerca, tra i relatori e il pubblico di addetti ai lavori si è svolto un piccolo interessante dibattito - moderato da Giuliano Tallone - sul parco. O meglio, sul parco che non c'è e che se ci fosse sarebbe la soluzione ai problemi di conservazione dell'area. O forse no. Dopo averlo chiesto per decenni, quasi ottenuto ma poi cancellato (giunta Osio, anni Novanta), siamo ancora sicuri che l'istituzione oggi di una nuova area protetta sulle colline di Tolfa garantirebbe gli obiettivi di conservazione meglio degli esistenti vincoli da usi civici, piani paesaggistici, Zps e di una loro intelligente applicazione ? E quali sono i progetti territoriali per il futuro di quest'area che si vanno preparando ? Dopo la minaccia delle torri eoliche cos'è appuntato nell'agenda di politici e sindaci - discariche ? parchi tematici ? Io un'inchiesta vera su questo meraviglioso ambiente la devo ancora leggere. Nel nostro Paese gli "spazi vuoti" sono a rischio. Per adesso il nibbio reale sceglie ancora Tolfa (la foto è della scorsa settimana e non è un crop, fatta col 500 mm + 1,4x dal finestrino dell'auto), domani chissà. Tre giorni a confrontarsi, incontrarsi, rassicurarsi sotto alle volte eleganti in legno di ciliegio dell'Auditorium firmato Renzo Piano. Guardiaparco in tenuta verde, presidenti in giacca e cravatta, naturalisti in pile di Decathlon. Si presentano guide e riviste come PAN, si mostrano diagrammi, è il solito trionfo di PowerPoint. I parchi del Lazio esistono, sono belli, sono tanti. Ma sarà tutto vero? Poi l'ultimo giorno un signore coi capelli bianchi, aria serena, lancia col mouse la tabellina risolutiva: è l'economista Paolo Belloc, già autore della più bella analisi socio-economica di un sistema di aree protette realizzata in Italia (voluta dal padre dei parchi del Lazio, Maurilio Cipparone, che hanno poi avuto non poche fortune: si chiamano Giuliano Tallone, Vito Consoli e soprattutto ARP ). Dice la prosa asciutta di Belloc che in appena cinque anni nei Comuni del Lazio coinvolti da parchi & riserve, soprattutto quelli piccoli a rischio desertificazione sociale, gli indicatori economici e demografici sono di segno assai più positivo che negli altri Comuni. Più posti di lavoro, meno spopolamento, le imprese non chiudono e basta. Alla tradizione, come quella della pastorizia (nella foto, sui monti Aurunci), si può associare l'innovazione. Il parco insomma conviene e non solo a cervi e lupi - quello si sapeva già.
E se i nostri parchi funzionassero davvero come dovrebbero, cosa accadrebbe ? Mercoledi 20 nell'ambito di Parchi 2.0 - Seconda Conferenza del sistema delle aree protette del Lazio (che ha luogo presso il magnifico Auditorium di Roma) si presenta la guida appena pubblicata che ho scritto assieme a Bruno Cignini sulla riserva naturale del Litorale romano. Estesa su circa 15mila ettari, quella del Litorale è la riserva più grande d'Italia, eppure la frammentazione degli ambienti e i numerosi problemi (mai visto personale di sorveglianza, per dirne uno) ne fanno per certi versi un luogo poco noto agli stessi romani. Per i fotografi naturalisti capitolini, viceversa, si tratta di una destinazione abbastanza usuale se pensiamo alla bonifica di Maccarese e a piccole oasi come Macchiagrande (oasi Wwf). La guida descrive i vari settori dell'area protetta, che conta siti del calibro di Ostia Antica piuttosto che la tenuta di Castel di Guido, ed è illustrata da numerose fotografie mie e di Bruno. Diversi scatti presenti su questo stesso sito - in particolare nella galleria Uccelli - sono stati realizzati proprio nella riserva. La presentazione del libro è alle 12,30 nella Sala Conferenze, assieme alle altre guide delle aree protette di Roma che pure in quest'occasione vedono la luce. Due o tre branchi di lupi, per un totale di circa quindici individui. Centoventi-centocinquanta cervi, reintrodotti dal parco negli ultimi anni. E poi la Tagliata di Vallepietra, il pianoro di Camposecco, la faggeta di Campo dell’Osso, le rocce del Tarino: i Simbruini sono Appennino vero a un’ora o poco più dal Grande Raccordo Anulare di Roma. Un serbatoio di biodiversità e di bellezza, una banca di ossigeno. Nato nell’ormai remoto 1983, con trentamila ettari il più grande del Lazio, nonostante gli sforzi di molti il parco resta una realtà dalle potenzialità in buona parte inespresse. Stamani la galaverna che addobbava i faggi era uno spettacolo; e ciaspolando fin sotto al Viglio ho incontrato piste di lepri, cinghiali e di un lupo. Ma le auto che salivano da Filettino portavano solo sciatori.
Giovedi 14 mi hanno invitato a una tavola rotonda a parlare di "Perchè i parchi non fanno notizia?". Temo di conoscere la risposta che darebbero quei turisti in tuta colorata. Lo sapevate che la poiana inghiotte gli aculei dell'istrice? Prima di fare queste foto, io no.
Sempre più convinto che è il capanno la dimensione più istruttiva (ed esaltante) del fotografo naturalista... Ho passato alcuni dei giorni di festa in questo ed altri capanni, a far foto. Si sa: lì dentro c'è poca luce, si sta scomodi come fachiri e - di questi tempi - fa un freddo maledetto. E per ingannare l'attesa pensi. Per esempio alla fotografia naturalistica, a quanto è poco considerata da noi e pure nello stesso ambiente di addetti ai lavori. Un amico di gran competenza mi ha detto: nel nostro ambito di naturalisti e ambientalisti, insospettite più voi che gli inanellatori, che invece fanno molti più danni. Un nidiaceo di stress - da anellino e, soprattutto, da quell'essere mostruoso che glielo fissa alla zampa - può anche morire. Però lì è solo gloria. I fotografi naturalisti, quelli seri, si fanno un mazzo così (e scusate l'eufemismo) per catturare immagini segrete ma ad attenderli stavolta ci sono silenzi reticenti e, se va bene, sorrisi fermati a metà dal sospetto (salvo poi ricevere richieste di utilizzo della foto, possibilmente gratis). Quanto gli avrà dato fastidio? Avrà mandato a monte la covata? Come è possibile avvicinare così gli animali senza far danni? Io credo che questi siano dubbi legittimi. E che gli inanellatori facciano un lavoro utile. Ma credo anche che la fotografia naturalistica in Italia sarebbe ora che alzasse la testa. Che tornasse a produrre cultura, come ai tempi del primo "Airone" e del vero "Oasis". Che si desse regole coraggiose (come una posizione chiara sull'utilizzo in editoria delle immagini realizzate in ambienti controllati, che invece latita persino nelle redazioni più blasonate) e le facesse conoscere. Che spostasse il dibattito dal mezzo al fine.
Perchè spesso, anche per la conservazione della natura, un'immagine vale più di mille parole. |
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